Il dialetto dei bisnonni...

O bambin coscì piccin
co-a so testa a rissolin
co-a so casa bella netta
che ghe stava Lisabetta;
Lisabetta a fiava
a Madonna a recamava
San Gioxeppe o fa o bancà
e o Bambin o fa a nannà.


Quella che avete appena letto è una filastrocca natalizia in dialetto genovese.
La traduzione conta poco, e dal mio punto di vista conta poco anche il contenuto "religioso"; quello che conta è che - grazie alla stessa maestra che oltre 30 anni fa insegnò questi versi alla cugina di mia moglie - Ginevra sta imparando un po' del nostro meraviglioso dialetto, il dialetto zeneize.
E soprattutto ci fa intenerire un casino quando la ripete a casa, girando gli occhi, scrollano delicatamente la testa, saltando sempre qualche parola rimandata a memoria ma non trovata.

Il dialetto, se ci pensiamo bene, è una forma di ricongiungimento tra persone che, in molti casi, non si sono mai viste, o hanno trascorso insieme meno tempo di quanto sarebbe necessario e dovuto. 
Parlo dei bambini di oggi e dei nonni di ieri, i nostri nonni, quelli che hanno fatto una (o due) guerre, quelli che hanno resistito a 60 anni di matrimonio, quelli a cui vorremmo assomigliare  per tenacia, coerenza e dedizione.
Almeno, per me è così.

E quella filastrocca che Ginevra reciterà nei prossimi giorni di festa, si insinuerà sotto l'albero, tra le sedie disposte attorno ad una tavola imbandita, facendosi posto, leggera; ci sussurrerà che sono i bisnonni i primi generatori di quella felicità che vediamo negli occhi delle nostre due figlie.

A voi genitori, dico, mi raccomando: tra corsi d'inglese prematuri, digital native e sport vari, tenetevi un angolo di tempo per insegnare ai vostri figli il dialetto dei vostri nonni.

Sarà come averli ancora tra di voi, anche solo per il tempo di una filastrocca.


Commenti

  1. Mi hai commosso. Perché hai ragione e spesso mi dimentico di quanto un nonno riviva in certe parlate...

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