L'erba voglio


Nella vita, che è relazione continua con il prossimo, quasi mai è sufficiente la sola volontà per rendere un'azione giusta o giustificabile.
Voglio fare una cosa e quindi la faccio è un sillogismo monco che farebbe impallidire Cartesio, ma chiunque di noi - in assoluta buona fede - lo avrà almeno una volta opposto ad un'obiezione esterna.
Mi andava di farlo, ne avevo voglia, lo desideravo tanto, il figlio è mio e lo educo come voglio.

Ma se l'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re, perché dovrebbe crescere in quello del genitore?

Eppure, che l'interlocutore sia una nonna, un ficcanaso qualunque o un genitore "rivale", quasi nessuno di noi è immune da questa reazione ad una critica, o ad un consiglio vestito da critica, o ad una polemica ragionata o sterile che sia.

Quando qualcuno mette in dubbio una nostra azione che coinvolge i nostri figli, lo scudo più grande e comodo che troviamo in armeria è proprio questo: il genitore sono io, la mamma sono io, il papà sono io e decido io cos'è meglio per lui, cosa va fatto e cosa non va fatto.

Legittimo, e forse naturale. Quale mamma o papà potrebbe ammettere candidamente di aver sbagliato, pensando invece di fare il bene per i propri figli? Non è solo questione di orgoglio, ma di razionalizzare le proprie scelte, talvolta convincendosi che sono non solo corrette nel sistema chiuso familiare, ma oggettivamente migliori di altre in rapporto alla società in cui viviamo.

Così pensando, c'è chi arriva a banalizzare e normalizzare comportamenti ai confini del "buon senso", come l'utilizzo sconsiderato dei media stile "babysitter" (sono i mezzi dei nostri tempi, quindi ne faccio l'uso che ritengo opportuno); l'affollamento di impegni nell'agenda del proprio figlio (sei o sette sport almeno, così li prova tutti e poi...decide); passare dal compromesso al vizio, dimenticando la parola "no". 

A me è capitato di pensare, effettivamente, di aver fatto scelte migliori di altre e di altri genitori.

Vietare la tv dopo cena, lasciare tempi morti per educarle a gestire la noia, scrivere regole con pochi NO, ma inattaccabili e incorruttibili.

Per me sono state scelte "migliori". Anche su altri temi, ad esempio non aver ceduto a "tutti nel lettone appassionatamente", ritengo di aver fatto una scelta "migliore". Ma se mi interrogo sul significato e sull'opportunità del paragone migliore/peggiore, mi trovo a pensare che è infantile tanto quanto il ragionamento "voglio quindi faccio".

E ancora dico forse, nell'epoca in cui l'insicurezza e la paura sono materie di scuola, non è il caso di paragonare le proprie azioni al di fuori, ma ritenerle soltanto più idonee all'interno del proprio nucleo, piuttosto che migliori di altre. Perché scoprire, infine, che migliori non siamo, migliori rispetto a nessuno, può avere un impatto critico, e renderci ancora più insicuri, più fragili, incapaci di rappresentare una guida certa, un attracco sicuro per i propri figli.

Se non è vero, e non lo è, che ognuno è libero di educare i figli "come vuole", perché questo mondo è di tutti e non solo nostro (e il futuro è di tutti i bambini, non solo dei nostri...) lo è altrettanto che nessun genitore dovrebbe ritenersi migliore di altri, ma pensare piuttosto a migliorare sé stesso, e di conseguenza la propria famiglia.

Migliorare per noi, e dimostrare di poter educare i nostro pargoli proiettandoli nel mondo da uomini e donne e non da eterni incompleti, affinché loro, un domani, a loro volta padri,  non debbano leggere MAI, come accade a noi, proclami e giudizi di filosofi che ci distruggono moralmente, ritenendoci una generazione di psicopatici inadatti a fare figli.


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